Il padre e la madre sono le figure fondamentali che, pur portando nella relazione con i figli elementi diversi e apparentemente discordi, hanno il compito di condurre il bambino ad uno sviluppo psicologico soddisfacente, in un gioco di collaborazione e di armonia. Il ruolo che il padre ricopre nel percorso di crescita e di sviluppo di ciascun individuo, rappresenta un apporto sostanziale che si snoda nella vita dei figli, sin dal concepimento, passando per l’età adolescenziale, fino all’ età adulta e viene inquadrato negli effetti che produce nei figli e nella famiglia. Tali effetti riguardano non solo l’ influenza diretta, come ad esempio i risvolti dello stile educativo sullo sviluppo emotivo o sociale del bambino, ma anche un’ influenza indiretta, attraverso la relazione coniugale, che può permettere un migliore sviluppo della relazione madre-bambino, come ad esempio il sostegno che il padre può dare alla compagna nel periodo perinatale. Il ruolo del padre fa parte di un complesso di variabili interne ed esterne che tendono a configurarlo come un elemento di un sistema di interazioni, cosicché il ruolo diretto del padre verso il bambino risulta a sua volta modificato dal sesso di quest’ ultimo, dal suo temperamento, dal ruolo della madre e da molte altre variabili.
Nella maggior parte delle ricerche psicologiche, così come nell’immaginario collettivo, la figura paterna è spesso relegata in secondo piano rispetto a quella materna. L’accoglimento del bambino nel grembo materno e l’allattamento collocano automaticamente il padre in un ruolo secondario e la letteratura è ricca di riferimenti, studi e approfondimenti teorici sulla diade madre-bambino, osservata da diversi punti di vista e da tutte le possibili angolazioni. E’, però, fuor di dubbio quanto l’origine del disagio psicologico, nell’infanzia come nell’età adulta, sia frequentemente riconducibile a squilibri e fragilità del rapporto con il padre.
Non è raro che le richieste di sostegno terapeutico che ricevo nell’esercizio della mia professione, coinvolgano bambini e adulti nella cui storia familiare sia rintracciabile un’assenza paterna grave o incisiva: padri assenti non solo fisicamente ma anche simbolicamente, padri che non trovano sostegno nella compagna né per far valere questa paternità simbolica né per salvaguardare questo sacro spazio, padri fragili e trasparenti, autoritari o violenti, insicuri e iperprotettivi, spesso non riconosciuti e svalutati nel loro ruolo, incapaci di comunicare, posizionati vicino all’ uscita, pronti a scappare.
Molti casi clinici sono esemplificativi di quanto i legami affettivi con padri instabili e ambivalenti possano avere effetti determinanti sul piano emotivo e cognitivo, nella strutturazione della personalità.
Dal punto di vista evolutivo, le caratteristiche maschili hanno seguito due direzioni di sviluppo: da una parte sono state selezionate caratteristiche di maggiore socialità e, dall’ altra, caratteristiche di aggressività. Un’aggressività, però, volta a proteggere il rapporto madre-bambino e a liberarlo dal suo carico di angoscia (Miscioscia, 2004). L’evoluzione, quindi, avrebbe premiato i maschi più capaci di attaccamento alle femmine, in grado di accudire i cuccioli e di garantire la sopravvivenza nell’ universo minaccioso, più complesso e meno gratificante del corpo materno.
Potremmo dire che nella specie umana, in un’ottica evolutiva, il padre, attraverso il suo ruolo etico e culturale di protettore dalle insidie del mondo, definisce i significati necessari alla sopravvivenza con il mondo esterno.
Nell’uomo, la selezione naturale ha cominciato a favorire la sopravvivenza dei bambini dotati di un cervello plastico che fosse suscettibile di apprendere, già dalla prime fasi dello sviluppo, le competenze necessarie alla socialità. I piccoli potevano incominciare ad acquisire queste competenze attraverso il contatto o l’interazione con la persona che si prendeva cura di loro, la quale, nel nostro ambiente di adattamento evoluzionistico era (e lo è per lo più tutt’ora) la madre biologica. La dipendenza dalla madre doveva tuttavia fare i conti con lo stato di debolezza che il post partum e l’allattamento determinavano nella donna. Affinché i neonati sopravvivessero e diventassero a loro volta adulti, era necessario l’aiuto di un’altra persona che si impegnasse in quello che viene detto “investimento parentale”. Questo individuo non poteva che essere il padre, la persona il cui successo riproduttivo era assicurato ugualmente dall’accompagnare fino all’età riproduttiva il bambino immaturo. Si è selezionata, così, nel maschio e nella femmina, la tendenza a mantenere una relazione esclusiva e duratura, la cui funzione biologica va rintracciata nel fatto che solo attraverso il contributo congiunto di una madre e di un padre un piccolo umano può sopravvivere (Hinde, 1989).

Da un punto di vista storico, fino alla prima metà del secolo scorso, il ruolo del padre, il suo scopo e quello che la società gli chiedeva, sono rimasti praticamente invariati per secoli. Pur cambiando le epoche, le società e le culture, il padre è sempre stato la figura deputata a stabilire le regole e disciplinare il comportamento dei figli. Indipendentemente dal momento storico o dalla classe sociale di appartenenza della famiglia, il suo dovere era quello di infondere il senso di responsabilità nei propri figli per farli crescere e inserirli nel mondo degli adulti. Negli ultimi decenni, l’ideologia femminista ha contribuito ad assestare colpi decisivi al concetto tradizionale di famiglia e l’emancipazione della donna e il suo ingresso sempre più deciso ed importante nel mondo del lavoro hanno dato il via ad una diversa concezione della famiglia e ad una nuova definizione dei ruoli al suo interno. E’ cominciata, così, ad emergere una tipologia di padre meno distante e più coinvolto.

Negli ultimi anni è sembrata affacciarsi una nuova consapevolezza dei padri, che cercano di trovare una via tra il padre autoritario e quello maternalizzato. Un padre autorevole, capace di sedare i conflitti nella famiglia e nella società.La parola d’ordine è diventata “co-genitorialità”, vale a dire una maggiore coinvolgimento del padre nella vita dei figli, nonché un’intercambiabilità delle funzioni, che vada al di là delle differenze di genere sancite dalla tradizione (Oliverio Ferraris, 2012).
Negli ultimi decenni è stato sempre più frequente imbattersi in neo-papà disponibili a cambiare pannolini, alzarsi di notte e preparare il latte con il biberon al proprio bambino. Cose che, in un’ottica patriarcale tradizionale, sembravano impensabili e assurde.

Oggi i padri hanno un nuova attitudine verso i figli e sono presenti nella loro vita in una veste del tutto diversa da quella dei padri di un tempo, dominanti, punitivi, rigidi e scarsamente disponibili all’ascolto. E’ stato evidenziato come nella società contemporanea il coinvolgimento quotidiano nel lavoro di cura dei figli aumenti con il livello di istruzione del padre ed è favorito se la madre lavora e non genera conflitti di competenza, cioè non fa sentire il padre un genitore incapace e il figlio un oggetto di proprietà privata (ISTAT,1998). Gli studi sulla capacità dei genitori a rispondere in maniera adeguata ai segnali del bambino (responsività) hanno evidenziato come anche il maschio è responsivo nei confronti della prole. Ne è un esempio il fenomeno dell’ engrossment; in molti padri, alla nascita del bambino, è stato osservato una sorta di innamoramento immediato verso il figlio. Il padre distingue e riconosce il figlio rispetto agli altri, nota rassomiglianze fisiche o di carattere , insomma si costruisce un’ immagine interna del bambino che tende ad occupare sempre più spazio nella sua mente. Questo processo iniziale favorisce il nascere di un valido rapporto di attaccamento padre-bambino fin dal primo anno di vita (Greenberg e Morris, 1974). Ma soprattutto è stata proposta una distinzione importante tra competenza ed esecuzione nel ruolo paterno. Anche se i padri esibiscono comportamenti di cura verso il piccolo in minore misura delle madri, quando essi si occupano del bambino lo fanno in modo altrettanto adeguato. I padri non sono sostanzialmente diversi dalle madri quanto alla capacità di mutualità, di alternanza dei turni nell’interazione faccia a faccia, quanto alla competenza nell’usare un linguaggio adattato all’età del bambino, nel riconoscere i suoi segnali, o nello svolgere le mansioni di cura. Essi hanno però uno stile diverso di interazione. I padri preferiscono interagire col figlio attraverso il gioco fisico, con contatti corporei molto stimolanti e ritmici. Sia che il padre giochi col figlio sia che lo accudisca, il suo atteggiamento in confronto a quello che ha la madre, è più prossimale, meno basato sulla comunicazione visiva e il linguaggio (Genta, 1985).
Diverse ricerche degli ultimi vent’anni mostrano come lo sviluppo intellettivo del bambino sia collegato in maniera privilegiata alla relazione con il padre e come tale figura genitoriale sia più determinante di quanto si credeva in passato, all’interno delle dinamiche familiari e nella socializzazione dei bambini (Russell e Radojevic, 1992; Tiedje e Darling, 1996).
Determinate caratteristiche paterne improntate al calore e alla disponibilità, sono presenti sin dai primi anni di vita del bambino e hanno un ruolo determinante nello sviluppo dell’autostima e della competenza sociale e nell’accrescimento della motivazione alla realizzazione delle potenzialità intellettuali e della creatività.
La continuità della funzione del padre appare cruciale, così come la sua presenza integra, fisica e mentale, sia sul piano della realtà oggettiva, sia su quello del vissuto interno relativo all’area del profondo (Guerriera, 1989).
L’interazione sociale dei padri con i figli è caratterizzata da un’intensa fisicità, volta a stimolare le competenze motorie e sociali del bambino che, a partire dal compimento del primo anno, acquista un ruolo attivo di “regolatore” della relazione. Favorendo l’esplorazione dell’ambiente esterno attraverso attività ludiche, arricchite da elementi di novità e di sorpresa, il padre si differenzia dalla madre, la quale utilizza maggiormente scambi verbali e modalità di interazione vis-a vis e più tranquille (Lamb, 1987; Caneva e Venuti, 1998).
Il gioco paterno aiuta il bambino ad apprendere la regolazione degli stati affettivi e rappresenta il ponte tra il sistema sociale familiare e quello dei pari. Le categorie della progettualità, della motivazione verso traguardi futuri e della decisionalità, un’adeguata autostima, una buona immagine corporea, forza morale e competenza sociale sono altre dimensioni della personalità specificamente collegabili alla funzione paterna. Comportamenti paterni quali raccontare storie ai figli, partecipare alla loro vita scolastica, accompagnarli alla visita di musei o luoghi storici, favorire attività extrascolastiche, sono alcuni dei fattori relazionali che appaiono significativamente correlati con indici di successo scolastico e di realizzazione personale sul lungo termine (Forgione, 1997).
La qualità della relazione che il padre instaura con il proprio figlio è, inoltre, strettamente legata al tipo di coinvolgimento affettivo e d emotivo che la caratterizza.
Lamb, nel 2004, ha cercato di studiare il rapporto padre-figlio classificando l’interazione tra i due membri della diade in tre categorie: accessibilità, responsabilità e impegno attivo. In questa ricerca l’accessibilità indicava la quantità di tempo in cui il padre era fisicamente insieme al bambino, ma con un coinvolgimento limitato e di tipo indiretto (per esempio il bambino gioca e il padre nella stessa stanza svolge il suo lavoro); la responsabilità evidenziava il diretto coinvolgimento del padre in attività in grado di promuovere il benessere del bambino (per esempio il sostegno economico, l’assistenza in caso di malattia); mentre l’impegno attivo comprendeva tutte quelle attività in cui il padre stabiliva un’interazione diretta e personale con il bambino. Secondo i risultati di questa ricerca il padre può aiutare il proprio figlio ad avere una maggiore autostima, migliori competenze sociali, un livello di rendimento scolastico maggiore, un comportamento maggiormente pro-sociale, solo se è realmente coinvolto nell’interazione con il figlio (Lamb, 2004).
Le prime ricerche sulla figura del padre si sono occupate soprattutto della psicopatologia della paternità (padri degli schizofrenici, dei delinquenti, dei tossicodipendenti ecc.) mettendo in risalto l’influenza sul figlio di una figura paterna descritta a volte come debole, assente, a volte come autoritaria e violenta. In tutti questi casi, il padre non aiuta il figlio a separarsi dalla madre e a realizzare la propria autonomia, ma contribuisce piuttosto al mantenimento di un rapporto morboso e invischiato tra madre e bambino. Il figlio, se maschio, non può sviluppare un’adeguata identificazione con il padre e la formazione della norma morale, se femmina può divenire incapace di instaurare un rapporto costruttivo con le persone di sesso maschile.
E’ importante osservare come in molti studi il ruolo del padre (soprattutto nei primi anni di vita del figlio) viene inquadrato attraverso il concetto della perifericità, in base al quale si sono distinte tre condizioni diverse (Smorti, 1994):
- Perifericità fisica intesa come lontananza fisica del padre che trascorre col figlio poche ore o addirittura pochi minuti al giorno;
- Perifericità psicologico-sociale intesa come minore coinvolgimento del padre, dovuto al suo ruolo strumentale di rappresentante della società, di colui che provvede ai bisogni economici e protegge il nucleo familiare nei confronti del mondo esterno;
- Perifericità biologica legata al suo unico ruolo di “iniziatore” del processo di gravidanza. Ciò lo predisporrebbe soprattutto nei primi anni di vita del bambino, a una minore capacità di rispondere con comportamenti biologicamente programmati all’ attaccamento del figlio.
Numerose ricerche hanno, poi, evidenziato come contesti familiari in cui la figura del padre sia debole o assente, possano determinare importanti conseguenze sulle condotte e sulle dinamiche affettive e relazionali dei figli. Disfunzioni educative, povertà, condotte antisociali, psicopatia, abuso di sostanze e basso rendimento scolastico, sono fattori legati a stati di deprivazione paterna.

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